venerdì

Italiana capace di ridare la vista

Immagini da un futuro già iniziato

La Professoressa Graziella Pellegrini,del Centro di Medicina Rigenerativa di Modena, racconta al TGCOM la sua carriera e le sue aspettative. La scienziata italiana, dal 1997 ad oggi, ha ridato la vista a centinaia di persone e lo ha fatto con umiltà e dedizione, mettendo al centro dei propri studi la tanto bistrattata ricerca sulle cellule staminali adulte.

Quello della ricerca sulle staminali è un tema giudicato scottante, in perenne equilibrio tra speranza e paura. L’Italia è all’avanguardia grazie al lavoro di un gruppo di scienziati, del quale fa parte la Professoressa Pellegrini, il cui risultato apre scenari fino a poco più di dieci anni fa impensabili. Nuovi protocolli medici, nuove cure, anche nuove professioni. Il team lavora presso il Centro di Medicina Rigenerativa “Stefano Ferrari” di Modena, la struttura più avanzata del mondo per la ricerca e le terapie delle cellule staminali epiteliali. Graziella Pellegrini ha consentito di ridare la vista a centinaia di persone, bene prezioso che si comprende appieno mano a mano che viene a mancare. In questa intervista abbiamo volutamente cercato di dare rilievo all’importanza degli studi della Professoressa Pellegrini, usando un linguaggio comprensibile. Lasciamo che sia lei a spiegare.

Professoressa, quanto è facile perdere la vista?
Per fortuna non è facile, purtroppo non è impossibile. I casi più frequenti con i quali siamo confrontati riguardano muratori a cui vanno schizzi di calce negli occhi, casalinghe che inavvertitamente entrano in contatto con prodotti aggressivi tipicamente usati durante i lavori domestici, operai i cui occhi sono entrati in contatto con acidi.

“Ricerca sulle staminali epiteliali della cornea”. Ci spiega in breve e in modo accessibile cos’è?
Di norma per rispondere a questa domanda faccio ricorso ad immagini o diapositive, di grande conforto nell’illustrare di cosa si sta parlando. Proverò senza… gli epiteli rivestono il nostro organismo, dentro e fuori, formando una barriera, una sorta di interfaccia verso l’ambiente esterno. Si consumano molto facilmente e l’organismo prevede che ci siano cellule in grado di ricrearli. La ricerca sulle staminali epiteliali della cornea si basa su questo: individua dove si trovano queste cellule nella cornea, come funzionano e rende possibile “farle lavorare” in vitro.

Quanto è durata la ricerca, prima di giungere alla pratica?
A noi è andata bene. Siamo arrivati alla pratica in breve tempo, ma ciò è avvenuto nel passato, quando la ricerca non sottostava ad una serie di regole e restrizioni che oggi la rallentano fino quasi a fermarla. Abbiamo iniziato nel 1993 e siamo giunti alle prime applicazioni pratiche nel 1995. Nel 1997 Lancet (pubblicazione medica di grande prestigio) ha pubblicato il nostro lavoro, ovvero il primo in questo campo. Un prototipo. Oggi non si può neppure sperare di compiere passi tanto importanti in breve tempo, le normative attuali non lo consentono. Anche se una ricerca avesse successo, prima di poterne mettere i frutti al servizio dei pazienti ci vorrebbero tanti anni e tanti soldi. Da quando le terapie avanzate sono state paragonate ai farmaci, viviamo la situazione in cui una cura specifica quale la nostra viene considerata come un farmaco di largo consumo, con la differenza che un farmaco serve un mercato vasto, mentre un terapia mirata come la nostra riguarda un singolo individuo. Questo fa lievitare tempi e costi rendendoli proibitivi.

Cellule staminali rigorosamente adulte, vero?
Solo adulte autologhe, sono le uniche che funzionano. Si tratta di cellule prelevate dalla stessa persona alla quale andranno poi trapiantate. Le cellule prelevate ad una persona non potranno servire a nessun altro.

Assieme a lei hanno lavorato altri ricercatori. Ci parla di loro?
Le persone con le quali ho lavorato durante questi anni sono tante, è un lavoro multidisciplinare, tanti specialisti ognuno con formazioni diverse che si siedono attorno ad un tavolo per affrontare i problemi e trovare le opportune soluzioni. Tra tutti cito Michele De Luca con cui lavoriamo da 20 anni alle terapie avanzate, Carlo Traverso, primo coraggioso utilizzatore del “prototipo” di cornea ricostruita e Paolo Rama, una persona di grande esperienza e dotata di un entusiasmo capace di fare la differenza, con cui abbiamo trattato oltre 100 pazienti con la nuova tecnologia. E’ lungo anche l’elenco delle persone che mi hanno affiancato, sobbarcandosi le parti faticose della professione ma comunque molto importanti, tra queste voglio fare il nome di Patrizia Paterna che ha lavorato con me sacrificando gran parte del suo tempo libero a questa professione che è anche e soprattutto passione. Tante persone davvero, qualcuna più centrata sull’obiettivo, altre invece più concentrate sulla ricerca del benessere e del successo personali.

E’ facile immaginare che questi studi siano estremamente costosi. Ci può dire, in percentuale almeno, come è stata finanziata la ricerca? Il pubblico finanziamento deve o può essere più “generoso”?
Gli studi sono stati finanziati con tutti i mezzi possibili. Non ci siamo preclusi nessuna via, ogni mezzo legale andava bene. In parte ci sono stati finanziamenti pubblici e privati, fondi europei. Abbiamo venduto pezzi di tecnologia all’estero per incamerare del denaro da impiegare nelle ricerche, ci siamo spostati nel mondo laddove ci fosse interesse per i nostri studi. Una vita nomade. Il finanziamento pubblico non è generoso e non è sempre meritocratico. Se distribuisse solo a chi produce dei risultati offrirebbe più possibilità di successo.

Ad oggi quante persone hanno goduto del frutto dei suoi studi? I pazienti sono solo italiani?
Con la prima generazione di epitelio, quando eravamo agli inizi delle applicazioni pratiche, abbiamo migliorato la vista di due pazienti. Con la seconda generazione della tecnologia i pazienti sono diventati 212 e siamo intervenuti su 252 occhi di persone provenienti da tutto il mondo, ma gli italiani erano prevalenti.

E’ corretto dire che l’Italia è tra i paesi più avanzati in questo ambito?
Sulle staminali o la terapia genica sì, anche se non viene pubblicizzato. L’Italia è all’avanguardia nel campo delle terapie avanzate e non solo per quanto riguarda l’occhio, è un discorso che si estende a diverse terapie avanzate. All’estero questo è noto, in casa nostra no. Il 24 dicembre scorso il Corriere della Sera riportava un articolo firmato da Adriana Bazzi in cui la giornalista decantava i dati di una struttura inglese di Newcastle, capace di ridare la vista ad un uomo, sottolineando che altre 25 persone erano state messe in lista d’attesa per essere sottoposte ad un intervento simile. Bene, noi lo facciamo dal 1997 quindi non è una novità né un risultato nuovo. Trovo sia un modo per darci la zappa sui piedi e non ne abbiamo assolutamente bisogno.

Ci aiuti a capire… quali sono i presupposti? Una persona completamente cieca può riguadagnare la vista?
Servono dei distinguo. I nostri pazienti hanno perso le cellule staminali di una cornea e possiamo intervenire grazie alla cornea sana, per chi ha riportato lesioni ad entrambi gli occhi si aprono invece due scenari. Se, tramite una biopsia effettuata da un chirurgo, risulta possibile recuperare anche un solo millimetro di tessuto sano, questo viene poi trapiantato e il paziente tornerà a vedere. Se dovesse mancare anche quella minuta quantità si può ricorrere ad un altro tipo di epitelio, ottenendo così una valida alternativa che funziona bene, anche se il tessuto non ritornerà ad essere identico a quello originale.

La percentuale di successi?
Varia. La media totale di tutti i 26 centri che hanno partecipato è circa del 70%. Il Dottor Paolo Rama ed il suo team da soli hanno acquisito una maggiore esperienza ed hanno raggiunto oltre l’80% dei successi.

Dove ci porterà il futuro?
Parlando di ricerca e di tecnica, molto lontano. Si possono trovare nuovi metodi per avere protocolli che riguardino anche altri tessuti come la retina o altre patologie degenerative o genetiche. In pratica, soprattutto sotto l’egida di questa nuova legislazione,sarà molto difficile e costoso. Le aziende non investono perché i tempi di raggiungimento degli obiettivi sono troppo lunghi e le università non hanno i mezzi. E’ necessario rendersi conto che queste leggi vanno definite ad hoc, cucite attorno a tali attività.

Dove la porterà il futuro?
Mi piacerebbe saperlo. Vorrei mi portasse a trovare nuove soluzioni, sono anni che ho voglia di trattare altre patologie, di trovare altre vie. Dove si andrà… bisogna vedere come l’Europa saprà gestire le terapie avanzate. Una maggiore apertura comporterà notevoli progressi e maggiore competitività.

L’ambiente della ricerca come accoglie le donne?
E’ un ambiente in cui le donne, numerose, si trovano a loro agio. Ci si muove con maggiore facilità ad inizio carriera poi, mano a mano che si scalano i vertici, si fa sempre un po’ più fatica ma soltanto perché la vita della ricerca è piena di sacrifici e diventa complicato fare conciliare lavoro e vita privata e, come è naturale che sia, c’è chi sceglie la famiglia. Comunque voglio sottolineare che quello della ricerca è un ambiente pieno di donne di valore.

Cosa ha provato dopo il primo caso curato con successo?
(Dalla sua voce si capisce che la Professoressa è commossa). L’emozione che si prova non si può descrivere. Da’ motivazioni incredibili, si ottiene la spinta per superare tutte le difficoltà. Si prova una gioia immensa. Ricordo le sensazioni che ho provato quando un giovane 17enne gravemente ustionato ha ritrovato una vita normale. Lo osservavo parlare con sua nonna… una sensazione stupenda.

Cosa prova oggi, dopo centinaia di successi conseguiti, quando un’altra persona riacquista o migliora la vista?
Provo rabbia nel pensare che ci siano tutte queste difficoltà, ma ogni volta ottengo la spinta necessaria per guardare avanti.

Considerando l’attuale taglio dei fondi, sarebbe possibile conseguire gli stessi risultati se la sua ricerca iniziasse oggi?
Sarebbe impossibile. Non solo per il taglio dei fondi ma anche per le nuove normative delle quali ho già parlato.

Quindi, sbilanciandosi un po’, la riduzione dei finanziamenti e questi paletti normativi stanno seriamente precludendo molte possibilità al genere umano?
Certamente. Questi blocchi non si sa quando finiranno, ci sono pochi finanziamenti perché anche i privati non riescono a prevedere quando otterranno dei risultati.

Questo, agli occhi di un “profano” almeno, è un miracolo. Come lo definisce, invece, una scienziata?
Un lavoro fatto di fatica, di studio, di sacrifici, di collaborazione con altri esperti capaci di rinunciare all’individualismo. Servono sempre più competenze e occorre metterle a disposizione del gruppo, solo così i risultati arrivano. Dice bene il premio Nobel Renato Dulbecco quando sostiene che “il ricercatore è un ottimista: nel 90 per cento dei casi quello che fa finisce in un fallimento”. Non è facile digerire gli insuccessi.

Parliamo di giovani: cosa consiglia alle nuove leve che stanno per intraprendere un cammino professionale simile al suo?
Mirare meno all’aspetto scenografico e pensare di più all’etica, agli ideali e alla ferrea volontà di risolvere i problemi. La gratificazione ci vuole, aiuta ad andare avanti, ma ci vuole la volontà di togliere sofferenze ed eliminare patologie. Questa è la molla, insieme alla consapevolezza di non avere vita facile.
Giuditta Mosca
fonte:http://www.tgcom.mediaset.it/cronaca/articoli/articolo472384.shtml?3&fontsize=medium

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