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Arterie «aperte» con le «nanofrese»

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Ricercatori statunitensi hanno messo a punto delle particolari particelle in grado di rilasciare farmaci a livello delle arterie danneggiate dall’arteriosclerosi…
MILANO - In un prossimo futuro per contrastare il restringimento dei vasi sanguigni conseguenza dell’aterosclerosi si potrebbe ricorrere a una nuova strategia basata sull’utilizzo di specifiche nanoparticelle che si attaccano selettivamente alle pareti delle arterie, dove rilasciano
gradualmente farmaci specifici con l’obiettivo di evitare nuovi restringimenti. Le nuove particelle chiamate «nanoburr» (nanofrese) sono state messe a punto da ricercatori dell’MIT e dell’Harvard Medical School. Gli scienziati, per ora, le hanno testate sui topolini con risultati promettenti, pubblicati sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences
FUNZIONAMENTO – Le nuove nanoparticelle sono indirizzate verso la membrana basale che riveste le pareti delle arterie e che risulta esposta solo quando le pareti sono danneggiate a causa dell’arteriosclerosi e di processi infiammatori. Per questo motivo i nanoburr potrebbero essere usati per somministrare farmaci contro l’arteriosclerosi e altre malattie infiammatorie cardiovascolari. Nello studio in esame i ricercatori d’oltreoceano hanno utilizzato nanoparticelle in grado di rilasicare paclitaxell, un farmaco che blocca la divisione cellulare e aiuta a prevenire la crescita di tessuto cicatriziale che può portare alla formazione di un trombo nel vaso interessato. Per quanto riguarda la struttura, le particelle sono delle sfere con un diametro di circa 60 nanometri. Presentano tre strati: un cuore interno contenente un complesso tra farmaco e un particolare polimero chiamato PLA, uno strato intermedio di lectina di soia (un materiale lipidico) e una copertura esterna costituita da un polimero chiamato PEG che ha la funzione di proteggere la particella all’interno del flusso sanguigno. Il farmaco può essere rilasciato solo quanto si stacca dalla catena PLA, cosa che avviene gradualmente attraverso una reazione di idrolisi (scissione con l’acqua). Più è lunga la catena PLA più dura il processo. In questo modo i ricercatori possono controllare il tempo in cui verrà rilasciato il farmaco variando la lunghezza della catena PLA. Per ora sono riusciti a fare in modo che il farmaco venga rilasciato nell’arco di un periodo di 12 giorni in test eseguiti su culture cellulari. Esperimenti sui topolini hanno inoltre mostrato che le nanoparticelle possono essere iniettate intravena nella coda e comunque raggiungere il bersaglio, ovvero nel caso specifico, le pareti danneggiate della carotide sinistra: le particelle si attaccano alla parete danneggiata con un tasso doppio rispetto a nanoparticelle non specificatamente indirizzate.
POSSIBILI APPLICAZIONI - Secondo i ricercatori americani le nuove nanoparticelle potrebbero rappresentare in futuro un approccio complementare utilizzabile insieme agli stent medicati (lo stent medicato è una piccola protesi cilindrica a pareti traforate che, subito dopo l’angioplastica, viene posizionata nel punto ostruito per ripristinare il normale passaggio del sangue e rilascia farmaci per prevenire nuovi restringimenti del vaso interessato) o in alternativa ad essi nei casi in cui non possano essere utilizzati con facilità, per esempio a livello di una diramazione arteriosa a forchetta. «Quella che abbiamo messo a punto è un ottimo esempio di nanotecnologia mirata al bersaglio. La speranza è che questo approccio possa avere ampie ramificazioni» commenta il professor Robert Langer dell’MIT, uno degli autori della ricerca. Secondo i ricercatori la nuova tecnologia potrebbe essere impiegata per curare malattie importanti, compresi i tumori e le malattie infiammatorie. «Si tratta di un approccio interessante, ma l’applicazione clinica nell’uomo resta ancora lontana – osserva il professor Antonio Bartorelli, direttore dell’U.O. di cardiologia invasiva e intervenzionale del Centro cardiologico Monzino-Università di Milano -. Attualmente non c’è nessun animale da esperimento che riproduca l’arteriosclerosi umana. E’ quindi molto difficile trandurre quello che si osserva nell’animale all’uomo e comunque non bisogna dare per scontato che funzioni allo stesso modo».
Fonte : http://www.corriere.it

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